Progetto “Leggere è un diritto?”, realizzato con il contributo del CESVOT

Chi è Baba Cesare? Che cosa lo ha portato da Torino agli asceti dell’Himalaya? Che cosa cercava, e che cosa ha trovato? Questa e altre domande hanno animato, lo scorso 5 marzo alla Casa circondariale “Mario Gozzini” (Firenze), l’incontro con Folco Terzani sul suo libro A piedi nudi sulla terra (Mondadori) organizzato nell’ambito del progetto Leggere è un diritto?.
La lettura come occasione di confronto con l’altro, ponte fra il dentro e il fuori per riannodare nella collettività un dialogo che si era interrotto. Il libro e la propria capacità di immaginazione come strumenti di riflessione critica e presenza con se stessi, per recuperare o costruire forme di autonomia e capacità di scelta venute meno in passato, ritrovando un senso al tempo della pena che spesso trascorre nell’inerzia. Leggere è un diritto? parte esattamente da qui, dalla lettura come diritto affatto scontato capace di aprire la possibilità di esercitarne altri: il diritto all’istruzione, alla salute intesa come benessere, alla piena cittadinanza e al sentirsi parte di una comunità.
Il progetto nasce da un lungo lavoro di tessitura per rendere possibile l’incontro fra mondi diversi che spesso faticano a parlarsi e a comprendersi: carcere, istituzioni, associazioni, comunità civile. Ideato da Giada Ceri con la consulenza di Manuela La Ferla (Casa dell’autore®), Leggere è un diritto? è promosso dalla Lila Toscana Onlus sotto gli auspici del Centro per il libro e la lettura (MiBACT) con un’ampia rete di partner (Fondazione Sistema Toscana; Persone Libro – Associazione Donne di carta; Comune di Firenze – Servizio Biblioteche, archivi e eventi; Garante dei diritti dei detenuti a Firenze; Prap; Libreria delle Donne – Firenze; Associazione volontariato penitenziario; Centro europeo teatro e carcere; CNCA; Robert F. Kennedy Center for Justice&Human Rights; Unione Camere Penali Italiane) ed è realizzato con il contributo del Cesvot.
Dopo Folco Terzani, la Casa circondariale “Mario Gozzini” ospiterà Antonella Cilento con il suo Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori 2014), Paolo Di Stefano con Ogni altra vita. Storia di italiani non illustri (Il Saggiatore 2015), Pietro Grossi con Pugni (Sellerio 2006). Filo rosso tra i libri proposti, la diversità, valore e risorsa ma anche fonte di discriminazione e causa di marginalità ed esclusione sociale, in armonia con la vocazione dell’associazione promotrice, nata nel 1987 per promuovere il diritto alla salute e lottare contro ogni forma di violazione dei diritti umani, civili e di cittadinanza delle persone sieropositive o con aids. Con Leggere è un diritto? la Lega italiana per la lotta contro l’aids ha voluto cogliere un’opportunità di riflessione sui temi intorno ai quali lavora da anni e che interrogano una molteplicità di interlocutori: chi vive con l’hiv e l’aids, ma anche chi si trova nella condizione di detenuto, e non solo. “Il fatto che noi inclusi abbiamo visto i nostri diritti rafforzarsi quando gli esclusi sono riusciti ad ottenerne alcuni”, ha scritto la sociologa Saskia Sassen, “è in netto contrasto con l’opinione della società in generale.” È molto diffusa l’idea, soprattutto in tempi di incertezza e paura (come il nostro), che ciò che “gli altri” guadagnano noi lo perdiamo. “Ma non c’è niente di più sbagliato”, continua Sassen, “l’esclusione e la discriminazione sono un cancro nel sistema sociale generale.” Quando gli esclusi ottengono diritti, anche gli inclusi vedono i propri rafforzati. E se si arriva a conoscere l’altro, conclude la sociologa statunitense, si riesce a vederlo come essere umano. Essere umano tout court, si può aggiungere.
Leggere è un diritto? muove da e verso la medesima idea di inclusione. Così, l’incontro con Folco Terzani ha voluto raccogliere la partecipazione più ampia possibile per confrontarsi su questioni capitali che inevitabilmente si pongono dentro come fuori dal carcere: la vita, la morte, il senso del proprio stare al mondo, la difficoltà e le occasioni per cercarlo – questo senso – lungo strade che a volte si fanno tortuose e sembrano finire nel nulla, o interrompersi in qualche inferno terreno.

La Casa circondariale “Mario Gozzini”, nella quale si realizza il progetto, è un istituto di cui si parla assai meno rispetto ad altre carceri considerate “modello” (per esempio la Casa di reclusione di Volterra o quella di Bollate). A dirigerlo è una persona (una donna) che non ha alle spalle studi di giurisprudenza, ma di antropologia sociale. Non sembra una casualità. La vocazione del “Mario Gozzini” è la stessa che oggi orienta il lavoro in altri luoghi della pena e che non è ancora divenuta la normalità nel nostro sistema penitenziario. Non ancora, dopo quarant’anni dalla Riforma che avrebbe dovuto rendere il carcere più giusto, più sensato, più umano.

Progetto di Peer Education promosso all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano

La peer education (alla lettera “educazione tra pari”, ma secondo alcuni autori più correttamente traducibile come “prevenzione tra pari”) è un metodo d’intervento particolarmente utilizzato nell’ambito della promozione della salute e più in generale nella prevenzione dei comportamenti a rischio. In essa, alcune persone opportunamente formate (i peer educator) intraprendono attività educative con altre persone loro pari, cioè simili a loro quanto a età, condizione lavorativa, genere sessuale, status, entroterra culturale o esperienze vissute. Queste attività educative mirano a potenziare nei pari le conoscenze, gli atteggiamenti, le competenze che consentono di compiere delle scelte responsabili e maggiormente consapevoli riguardo alla loro salute. La peer education si prefigge dunque di ampliare il ventaglio di azioni di cui una persona dispone e di aiutarla a sviluppare un pensiero critico sui comportamenti che possono ostacolare il suo benessere fisico, psicologico e sociale e una buona qualità della vita (Croce, Lavanco, Vassura , 2011).

Tenendo presenti le possibilità del contesto della scuola carceraria, all’interno del quale si è svolto il progetto in collaborazione con gli insegnanti, e questi aspetti teorici, peraltro già da noi sperimentati in altri progetti sul territorio (scuole, centri giovani) abbiamo realizzato due cicli di 3 incontri a cadenza settimanale:

  1. incontro generale di informazione sull’HIV/AIDS (presentazioni su power point e visione di filmati);

  2. incontri di lavoro in piccoli gruppi (metodica già sperimentata nei precedenti interventi) in cui individuare le informazioni più importanti secondo i detenuti da veicolare nel contesto carcerario e le modalità che potrebbero essere più funzionali con realizzazione finale di un opuscolo o cartellone informativo da far poi circolare anche tra coloro che non partecipano agli incontri;

  3. incontro finale di commento ed esposizione dei lavori realizzati  e riflessione

L’idea permette di mettere a fuoco dinamiche di collaborazione, risorse personali attivate nel portare avanti il lavoro e si pensa/auspica possa avere una ricaduta su quelli che sono gli aspetti psicologici delle persone con HIV in quanto la metodologia  facilita un primo passo verso il punto di vista dell’altro e della riflessione condivisa.

Il progetto ha riscontrato buona partecipazione e interesse sia da parte dei detenuti che dei docenti. Le immagini riportano alcuni dei prodotti realizzati.

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